Perchè tanto interesse per “mindfulness e auto-compassione“? La letteratura in materia ha evidenziato da tempo l’efficacia dei programmi Mindfulness-Based per alleviare il disagio psicologico e per la riduzione di diversi sintomi. Meno si sa, invece, dei meccanismi specifici attraverso i quali la mindfulness raggiunga questi risultati. Studi più recenti hanno esaminato la “presenza mentale” e l’ “auto-compassione” come potenziali mediatori degli effetti benefici della mindfulness su diversi processi e comportamenti relativi alla regolazione delle emozioni negative e degli stati mentali problematici. Entrambe le variabili, infatti, sembrano avere un ruolo determinante sui processi di cambiamento, soprattutto per la gestione dell’ansia e della depressione. La presenza mentale è certamente l’elemento chiave di qualsiasi intervento mindfulness based (Kabat Zinn, 1982) e implica una attenzione che sia “intenzionale” e non giudicante al qui e ora, momento dopo momento (Amadei, 2013).
Shapiro e colleghi (2006) hanno tratteggiato un modello teorico verificabile che dimostra quali meccanismi specifici possano spiegare gli effetti benifici della presenza mentale. In tale studio i training fondati sulla mindfulness sembrano portare ad un significativo cambiamento nella modalità di relazionarsi all’esperienza (reperciving), e quindi ad un maggiore benessere psico-fisico, grazie ai cambiamenti in 4 variabili: un miglioramento nelle capacità di autoregolazione emotiva, una chiarificazione e rivalutazione dei valori personali, una maggiore flessibilità cognitiva e comportamentale, ed infine, una riduzione dei comportamenti di evitamento, grazie anche ad una maggiore sicurezza nell’esposizione a situazioni temute.
Negli ultimi anni, in particolare, diversi lavori (Keng et al., 2011; Barnard e Curry, 2011; Carmody, et. al 2009) si sono concentrati sullo studio degli effetti specifici della presenza mentale come mediatore di cambiamento nella mindfulness, osservando anche le differenze tra percorsi mindfulness based e training tradizionali sull’attenzione, training autogeno, ipnosi, e meditazioni di altre tradizioni. Birnie e collaboratori (2010) hanno dimostrato che le qualità di accettazione e gentilezza che accompagnano questo tipo particolare di consapevolezza “mindful” favoriscono maggiormente le capacità di autoregolazione emotiva, di osservazione e descrizione degli eventi e dei propri stati emotivi e mentali, una significativa riduzione del rimuginio e la possibilità di rispondere più adeguatamente allo stress e al conflitto (Baer et al, 2006; Keng et al, 2013).
Si sono osservati, inoltre, ulteriori vantaggi grazie all’introduzione in alcuni protocolli specifici (come lo MBSR) di pratiche sulla Gentilezza Amorevole e la Compassione (nell’eccezione buddista), tanto che ad oggi sono molte le tecniche psicoterapeutiche che si fondano sullo sviluppo di “un sé più compassionevole” (come ad esempio il Compassionate Mind Training e l’Immagine Compassionevole di Gilbert, la Gestalt con 2 sedie di Neff, dal 2007 il Mindfulness Based Stress Reduction di Kabat Zin).
Va considerato, però, che l’impiego di pratiche meditative è uno strumento fondamentale per migliorare le qualità di empatia e di auto-compassione (Kristeller e Johnson, 2005), e che le caratteristiche promosse dalla mindfulness sono considerate precondizioni necessarie per un sé compassionevole (Beddoe e Murphy, 2004; Block- Lerner et al., 2007; Neff, 2003a).
Keng e collaboratori hanno indicato la presenza mentale e l’auto-compassione come principali mediatori di efficacia del più famoso e diffuso protocollo mindfulness based per la gestione dello stress (MBSR di Kabat Zin). Il loro lavoro ha anche evidenziato che i due costrutti sono fortemente interdipendenti, che l’auto-compassione è maggiormente correlata alla riduzione della “preoccupazione” mentre la consapevolezza al rimuginio e la regolazione emotiva, ed infine, che i miglioramenti in entrambi i processi possono contribuire più velocemente a ridurre l’evasione e la paura di un’emozione.