L’ Auto-compassione implica sentimenti di cura e gentilezza verso sé stessi di fronte alla sofferenza personale e comporta il riconoscimento che le proprie sofferenze, i propri fallimenti e le proprie inadeguatezze siano parte della condizione di tutti gli esseri umani.
In passato la psicologia occidentale si è a lungo focalizzata sullo studio dell’empatia e della compassione verso gli altri, trascurando di esplorare gli effetti dell’auto-compassione (Neff, 2003). Nella tradizione buddhista, invece, la compassione implica l’essere “mosso da” e “desiderare di” alleviare la sofferenza sia propria che altrui, e non esiste una separazione e una dicotomia tra empatia per gli altri e l’auto-compassione (in tibetano, infatti, il termine tsewa comprende sia la compassione per sé che per gli altri). Solo nell’ultimo decennio, finalmente, alcuni psicologi occidentali hanno sviluppato una cospicua mole di modelli teorici ed empirici per lo studio dell’auto-compassione.
Neff (2007b) individua e sottolinea 3 aspetti fondamentali del concetto di auto-compassione:
- la gentilezza verso sé stessi vs l’autocritica
- il sentimento di appartenenza vs l’isolamento
- la consapevolezza vs la sovra-identificazione.
Tali componenti sono interdipendenti e facilmente osservabili nei momenti di sofferenza e di fallimento di ciascuno. Ogni componente ha due parti, la presenza di un costrutto e il suo opposto.
L’auto-compassione, nello spaccato occidentale, propone un invito a promuovere la gentilezza e la comprensione verso sé stessi, sospendendo l’autocritica e il giudizio feroce a cui oggi ci si espone (e auto-espone). Contemporaneamente è un sano incoraggiamento a sviluppare un maggiore “senso di interconnessione”, imparando a vedere le proprie esperienze come parte dell’esperienze che possono capitare a tutto il genere umano, poiché è sempre più frequente il sentirsi diversi, separati e isolati, sin da bambini. Tutto questo è reso possibile grazie ad un costante addestramento ad essere “osservatori” dei propri pensieri e sentimenti dolorosi senza sovra-identificarsi con essi, imparando ad accogliere con equanimità tanto gli aspetti positivi quanto quelli negativi di noi stessi e delle nostre vite, uscendo dalla solita abitudine dell’etichettamento e della valutazione semplicistica del piacere, che ci spinge a legarci a ciò che ci piace e rifiutare ciò che non piace (Di Manna, 2011).
Dato il successo e la diffusione in occidente di queste pratiche, vi è un crescente corpo di ricerca che documenta come l’auto-compassione sia un costrutto che si distingue fortemente da altri temi simili (auto-centratezza, pietà verso sé stessi, auto-compiacenza, ecc…) a noi da tempo più familiari. Ad esempio, anche se il giudizio di sé può essere considerato come sinonimo di autocritica, l’auto-compassione non è sinonimo di autostima, ed anzi vi sono significative differenze anche rispetto agli effetti salutari che queste qualità possono avere su ciascuno di noi. La compassione sembra essere maggiormente correlata alla riduzione di tratti negativi (come la rabbia, o il costante rimuginio su sé stessi) mentre l’autostima all’aumento di tratti positivi (come l’ottimismo e la felicità) (Leary et. al, 2007). In un interessante studio si sono osservate le differenze tra persone con maggiore auto-compassione e soggetti con maggiore autostima. I risultati hanno indicato che le persone con buone capacità di auto-compassione tendono lievemente a sottostimare le proprie capacità ma ad essere più serene nell’affrontare i fallimenti e più consapevoli dei successi, mentre le persone con un’alta autostima tendono a sentirsi più sicure nel fare fronte alle difficoltà ma reagiscono peggio al fallimento (Neff e Vonk, 2009).
L’auto-compassione, difatti, è associata a molti aspetti della nostra salute psicologica. Diversi studi hanno rilevato come essa sia positivamente correlata con gli affetti positivi e negativamente correlata con gli affetti negativi: è, ad esempio, negativamente correlata all’ansia e alla depressione (Leary et al, 2007;.Neff et al., 2007a), e positivamente correlata al senso di benessere, felicità e gradimento della vita.
Tali correlazioni potrebbero essere spiegate dal fatto che l’auto-compassione è positivamente correlata alla consapevolezza e negativamente correlata alla ruminazione, alla soppressione dei pensieri e all’evitamento. Tali correlazioni potrebbero, inoltre, chiarire i risultati dello studio di Thompson and Waltz (2008) che rivelano una prova iniziale di come l’auto-compassione possa essere considerata un fattore di protezione contro lo sviluppo e/o il mantenimento di un DPTS.
C’è un’ampia letteratura nascente, quindi, che mira ad esaminare le capacità potenziali di alcuni interventi volti ad aumentare l’auto-compassione o le sue singole componenti, tra cui la mindfulness. È necessario sviluppare, tuttavia, una migliore validità di costrutto dell’auto-compassione, un’analisi più approfondita delle sue componenti e di come queste possano essere correlate al benessere psichico, e in quale modo l’auto-compassione possa essere promossa e sviluppata nelle psicoterapie.